Una persona entra nella stanza, la sua domanda è una storia d’amore. Come sempre. Accenna al fatto che vorrebbe sentirsi eccezionale, incredibile, ma non distraiamoci, dice, vuole approfondire la questione dell’amore. Bene, racconta i dettagli di un’intimità a suo dire bizzarra e promiscua e lamenta il fatto che non mi sconvolga, ascolto? Certo, non ho giudizi su quello che fa, è vero, ma non è questo il punto: se sto in silenzio è semplicemente… perché non ho nulla da dire, neanche che più che dalla storia in sé, sono incuriosita dalla narrazione che ne fa ed è, questo sì bizzarro, spudorata. Andiamo avanti per mesi, esplorando vari aspetti ma ad un certo punto, chiedo se teme di non essere credibile. Mi risponde che non sa come e perché, sembra assurdo, ma prova una profonda vergogna, come mai in vita sua. Non tornerà più, dicendo che ha bisogno di una sessuologa per continuare a parlare.
Avete mai incontrato dei lettori accaniti? Capita. Descrivono la lettura in termini fisici (es. l’odore dell’inchiostro), ma non si tratta di una storia passeggera, no, loro fanno l’amore con i libri, ne vogliono ancora e ancora, ma non uno qualunque, li scelgono con grande attenzione. E in fondo, non sanno spiegare bene perché leggano. In effetti, la lettura non serve a niente, è questo il punto, non è utile e anzi può essere un po’ faticosa, eppure fa bene perché i libri offrono descrizioni credibili, nel senso che nella finzione, ci dicono qualcosa della nostra verità. Propongono pagina dopo pagina, immagini ricorsive che fanno compagnia mentre cerchiamo di conoscerci un po’, parole significative perché cambiano ciò che già sappiamo, ma non sappiamo quando succede. E ciò che ci appassiona è al di là della storia, la capacità di raccontarla, la sua narrazione, in altri termini, la sua grammatica. Come una buona terapia, dove settimana dopo settimana, si ripetono i dettagli storici, non il modo in cui ci succede di dirli.
A proposito di grammatica, nel celebre “Come un romanzo” (Feltrinelli, 1993), Daniel Pennac scrive che il verbo leggere non ammette imperativo, come anche i verbi amare o sognare. Ecco, l’imperativo è uno strano modo verbale: nella lingua italiana, è l’unico che posticipa il soggetto. Ogni volta che c’è un ordine, infatti, abbiamo l’impressione che non abbia più senso dire che comunque eravamo d’accordo, non verremo più creduti. L’obbligo ci anticipa e annulla come persone capaci di scegliere. L’imperativo al positivo è un paradosso. Cosa interessante, al negativo, l’imperativo italiano cambia proprio la sua natura, diventando infinito, come il desiderio che nasce da una proibizione. Ecco, ordinare di leggere, qualunque cosa purché si legga, uccide il lettore, come l’obbligo ad amare è una violenza e il “vai a fatti curare da uno bravo” non funziona.
Allora, questa nuova rubrica ALI-Torino, “UN LIBRO AL MESE”, che si inaugura con l’inizio del nuovo anno e ci farà incontrare una volta al mese, non è un’esortazione alla lettura, non leggete, per carità… ma scrivetene! Non libri sulla nostra pratica psicoanalitica, non per forza libri di attualità, insomma, semplicemente testi che vi spingono a dire qualcosa, perché cosa resta di una buona lettura se non la possibilità di scrivere ancora?