01/11/2015
Turandot
di Marilena De Luca
Da qualche mese la storia di Turandot mi martella in testa chiedendo che provi a scriverne qualcosa. Non è certo mancata l'attenzione degli psicoanalisti a questa figura femminile e neppure a quella, letta come contraltare, di Liù, prese insieme possono essere in qualche modo emblematiche della rappresentazione della donna nell'immaginario maschile: la “femme fatale” e la madre. Non mi è ancora tuttavia capitato di incontrare, probabilmente per ignoranza e scarsa accuratezza della ricerca, una lettura della storia in chiave lacaniana. Non mi soffermerò sulla potenza della cattura immaginaria prodotta dall'apparato scenico e musicale di questo melodramma, che Puccini non riuscì a terminare di comporre per il sopraggiungere della morte, ma forse anche, come alcuni critici ipotizzano, per la difficoltà di risolvere musicalmente il cambiamento di registro emotivo. La parte finale dello spartito è infatti opera di Franco Alfano.
La mia intenzione è invece quella di provare a dire qualcosa sul testo del libretto, che non risente evidentemente di interruzioni ed è un rimaneggiamento di un'antica favola persiana curato da Giuseppe Adami e Renato Simone. Prenderò i personaggi e la vicenda come esemplificazioni di figure tipiche di un immaginario generale e diffuso, forse comune anche agli autori ma non loro specifico, sulla donna e sull'amore.
La mia attenzione è attratta da alcuni punti: la differenza dei “no” di Turandot e Liù, i posti da cui parlano l'imperatore e Liù, la centralità della questione del “nome” e quindi della singolarità nell'amore, il che ha a che fare con il passaggio dall'immaginario al simbolico della relazione tra Turandot e Calef, che mi sembra ben esemplificare quanto ci dice Lacan sull'amore nel primo libro del seminario dedicato agli scritti tecnici di Freud.
Non sono molti i personaggi che, come Turandot, si prestino così bene a rappresentare “La” donna, cioè un femminile in un posto che fa eccezione, nonché l'alterità radicale dell'altro sesso, ben presente già nella favola originale persiana in cui la cosa è in qualche modo raddoppiata e nello stesso tempo esorcizzata nella sua pericolosità sociale, attribuendo a Haft Peikar radici straniere, sembra russe o slave. Quale infatti maggiore pericolo dell'ipotesi di una donna che possa minare alla radice il legame sociale rifiutando le nozze, le regole dell'eredità dinastica e che con un semplice “no” possa estinguere un regno? Questo tema mi sembra molto più pregnante delle più classiche letture in chiave di imago castrante dell'immaginario maschile. Forse anzi l'attenzione all'aspetto per così dire “eversivo” del “no” femminile non giustifica, ma permette di comprendere meglio le radici ataviche che spingono a uccidere la donna che si rifiuta e poi a uccidersi portando a compimento, almeno per sé, quella “fine del mondo” a cui il “no” femminile allude.
Di tutt'altro genere è il “no” di Liù, che non si suicida per amore, ma dice “no” e dà la vita per salvare. Qual'è la specie d'amore di Liù? Lei stessa ne spiega l'origine: “Perché un dì nella reggia mi hai sorriso.” E di questo s'accontenta, anzi si fa contenta, non chiede altro, come una madre del sorriso del suo bimbo. A Calef che chiede: “Liù, chi sei?” risponde (con dolcezza estatica, annota il libretto): “Nulla sono! Una schiava, mio signore”. E di nuovo ricorda l'annullamento soggettivo di una madre che si fa oggetto dei bisogni del proprio piccolo.
E allora, sbaglierò, ma a me sembra rappresentare una figura che parla non dal posto di una giovane donna innamorata, ma da quello di una madre, di una madre che sa tirarsi indietro quando è venuto per il figlio il tempo d'amare. Più che a Turandot, Liù sembra nella vicenda contrapporsi all'ava violata, chiamata da Turandot a giustificazione della propria posizione.
Anticipando la conclusione, la favola sembra dire che l'imago/Turandot per poter occupare il proprio posto di donna ed amare necessita di un padre che si sottometta alla legge e rappresenti la legge: “E' sacro il giuramento”, ma anche di una donna/madre che insegni il rischio dell'amore.
Ed ora la questione secondo me più interessante. L'amore si sostiene d'immaginario, di purissimo immaginario. Calef ha appena pronunciato (ed è tuttavia già un appello) le parole: “Ch'io ti veda e ch'io ti maledica! Crudele, ch'io ti maledica”, che appare Turandot e Calef passa (le indicazioni del libretto sottolineano estatico) a: “O divina bellezza! O meraviglia! O sogno!”. E questo è ciò che Lacan distingue come amore passione. Calef ci appare completamente alienato nel desiderio dell'altro, si coglie bene che non si tratta semplicemente di desiderare Turandot come un uomo desidera una donna, è anche identificazione al desiderio dell'altro, se è morte che morte sia. Ma c'è dell'altro, Turandot nega il suo corpo, ma non si nega alla parola, domanda. E che cosa domanda? Di essere un significante che rappresenti un soggetto per un altro significante. Il terzo enigma è infatti il suo nome. La narrazione mostra ancora la via da seguire: a sua volta Calef le chiede la stessa cosa ed è attraverso il dono del suo nome che egli accetta l'alienazione nell'altro in un modo che chiama alla reciprocità ed accade che la relazione sostenuta dall'immaginario si temperi (nel senso di farsi consistente, ma anche in quello di attenuazione della virulenza mortifera) nel possibile del simbolico.
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