01/09/2015

Psichiatria e violenza


di Fabrizio Gambini

Ci sono luoghi a cui succede, tragicamente, di diventare dei simboli. Uno di questi luoghi è una panchina. Adesso, su questa panchina, si trovano dei fiori e dei bigliettini. In precedenza, su quella panchina, sedeva un uomo, che è morto. Le mani che depongono i fiori e che scrivono bigliettini sono mani che appartengono allo stesso corpo, il vicinato, il prossimo, la gente, che a gran voce, reclamava il ricovero di quell’uomo, chiedendo così assieme la sua cura e la liberazione della panchina.
Basterebbe questo per cominciare a porre il problema del rapporto tra psichiatria e violenza. Se la psichiatria incarna la volontà d’ordine della folla, la sua violenza è la stessa al cui esercizio la società, ovvero la folla organizzata in convivenza civile, delega le Forze dell’Ordine. Ma la psichiatria è anche pietas, ovvero capacità di interloquire con un soggetto, piuttosto che con l’oggetto la cui gestione gli è delegata dalla gente. Interloquire con un soggetto significa prima di tutto riconoscere lo spazio di un’espressività anche, e soprattutto, quando questa espressività infrange gli standard talvolta feroci della convivenza. Quanto tempo è legittimo sedere su una panchina? Si può parlare da soli sedendo su una panchina? E quanto alta deve essere la voce di chi parla da solo? Si può ululare sedendo su una panchina?
La tragedia di cui quella panchina è diventata il simbolo è la tragedia di una psichiatria che ha perso la sua capacità di interlocuzione. Per qualche anno, in Italia, chi si confrontava con la follia ha saputo di doversi necessariamente confrontare con il trattamento che la follia riceve dal contesto sociale concreto in cui si esprime. Oggi questo sapere si è perso. La medicalizzazione estrema, la riduzione del comportamento a sintomo, il trattamento proposto che diviene imposto, l’alterità che è pervertita in alterazione mentale o in estraneità, sono tutti indici di questa perdita.
Per secoli il mediterraneo è stato la connessione liquida tra gli abitanti dei porti che vi si affacciano, oggi quella connessione è diventata il confine in cui si muore nel tentativo di attraversarlo. Tutto sommato, per quelle morti si manifesta la stessa indifferenza che si manifesta per quella panchina. Ma cos’è il contrario dell’indifferenza? Ahimè, non la pietas e l’interlocuzione. Lo sapete. Sapete tutti qual è il contrario dell’indifferenza, solo che è difficile dirlo, ripugna alla nostra coscienza di cittadini. Il contrario dell’indifferenza è quell’identificazione, la terza nella numerazione che ne fa Freud, che, con un unico movimento, ci posiziona posizionando il nostro nemico.
Chi chiedeva a gran voce la liberazione della panchina, chiedeva di essere liberato dalla presenza del nemico ad opera del braccio armato della propria buona coscienza di cittadino; chi scrive ora teneri bigliettini per riempire il vuoto di quella panchina, fonde la propria buona coscienza nell’odio per il braccio armato di cui ha richiesto l’intervento.
Bisognerebbe sedere tutti su quella panchina, folli, psichiatri e cittadini e tornare a parlarsi come, per un breve periodo della nostra storia è sembrato che si potesse fare.

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