01/02/2023

Monstrumana


di Fabrizio Gambini

Francesca Giro e Gaetano Pagano, Monstrumana. L’umanità del mostruoso, la mostruosità dell’umano, effequ 2022.

Il libro tratta di mostri e di scrittorɘ che scrivono di mostri. Già, scrittorɘ; non è un refuso o una bizzarria del computer, bensì una scelta degli autori, ma a questo punto dovrei scrivere autorɘ, che abbastanza evidentemente militano per una messa in discussione dei limiti, di ogni limite. Il sottotitolo è già un programma: l’umanità del mostruoso, la mostruosità dell’umano.
Sicuramente è un libro avvincente e capace a tratti di gettare anche una nuova luce su personaggi già molto indagati della letteratura: dalla Creatura di Frankenstein, a Quasimodo, a Hyde, a Dracula e a Carmilla, la versione femminile del più famoso Conte, passando per Calibano, per Gollum, per lo spettacolo dei Freaks, per le Sirene, per Medusa e per i fantasmi in genere. È un libro moderno, attuale, che rivela e stigmatizza maschilismo, sessismo, razzismo, paternalismo, colonialismo e, verosimilmente, altri “ismi” del passato. A pagina 74 del libro troviamo una citazione «dalla rivista satirica conservatrice Punch, pubblicata nel 1863 e intitolata Scene from the American Tempest. È una vignetta che agli occhi contemporanei risulta incredibilmente violenta: tradotta a grandi linee vediamo il nero Calibano/Sambo rivolgersi, con un gergo che stereotipizza chiaramente la parlata nera, a un soldato unionista che sta malmenando un confederato perché, sostanzialmente, gli lasci il posto: la didascalia dà a intendere che le parole pronunciate siano una traduzione in schiavese di quelle di shakespeariane.» Riferendosi alla vignetta, in una nota al testo citato, gli autorɘ scrivono: «Davvero troppo violenta perché ci si possa permettere di riportarla qui; chiunque voglia ha tutti gli elementi per ritrovarla.» (p. 75). 
Ovviamente tanta sensibilità, e tanta violenza percepita, mi ha incuriosito e poi gli psicoanalisti amano almeno aprire, se non rompere, tutte le scatole che si presentano chiuse. Sono dunque andato su Internet per ritrovare la vignetta e in effetti non è stato difficile. In realtà la vignetta ritrae Abraham Lincoln, caricaturalmente ritratto con la divisa dell’esercito nordista (Unione) che consegna il Proclama di Emancipazione a un nero caricaturalmente ritratto come tale e la didascalia dice qualcosa del genere: «Tu dato lui bastanza botte, badrone! Boco tembo e bicchio lui anche io.» Infatti a fianco di Lincoln in divisa nordista si vede, imbronciato e a braccia conserte, un ufficiale dell’esercito confederato. Il testo inglese della didascalia è il seguente: «You beat him nough, massa! Berry little time, I’ll beat him too.»
Vignetta violenta? Senza dubbio sì. Abbiamo visto tutti Alien e l’Esorcista, Arancia Meccanica, Apocalypse Now e Full Metal Jacket e, senza ombra di dubbio, è di un’altra violenza che si tratta: una violenza contro la quale si leva lo schermo di una sensibilità virginea che non consente aɘ autorɘ neanche di citare tra virgolette la didascalia incriminata. Piuttosto l’oggetto violento viene velato come si fa con le facce dei bambini o quelle dei morti ammazzati in Ucraina ripresi dalla telecamera di una troupe televisiva. Quello che c’è nella vignetta di insopportabilmente violento per ɘ autorɘ (a proposito, vi dispiace molto se da qui in avanti uso l’articolo e la declinazione del sostantivo come cristallizzato nella lingua italiana? Non ho niente contro l’anonimato di genere ma mi secca andare ogni volta ad aprire la tendina dei simboli per inserirne uno che non è sulla tastiera. Aspetto che il progresso porti qualcunɘ a produrre una tastiera gender free) è il linguaggio, ovvero la storpiatura caricaturale dell‘inglese di Shakespeare nella parodia imposta dalla cultura padrona agli schiavi neri americani. Sì, sì lo so! C’erano anche le schiave, tant’è vero che se qualcuno di voi ricorda ancora “Via col vento” (film del 1939, tratto dal romanzo Gone with the Wind, di Margaret Mitchell con Vivien Leigh, Leslie Howard, Olivia de Havilland e Clark Gable) ricorderà anche Mami, la nutrice e schiava personale di Rossella. A proposito, mentre ricordo i nomi degli interpreti bianchi, devo andare su Internet per scoprire che la bravissima interprete del personaggio di Mami si chiamava Hattie McDaniel. Il fatto è che, oltre a restare nell’anonimato per la grande massa dei cine spettatori, Mamie parla come il Sambo/Calibano della vignetta. È stato proposto di ridoppiare il film in modo che Mami non parli più come la caricatura di ciò che è davvero esistito, del mondo che è realmente esistito. E qui sta il problema: il ridoppiaggio del mondo, un doppiaggio nuovo che ci renda meno urticante il mondo come è stato e come è. Il mondo che abbiamo è quello che è ed è il risultato di quello che è stato. Il nostro mondo, l’evo che si chiamava «moderno» ai tempi in cui ho frequentato la scuola media, scaturisce pari-pari dal 1492, data della scoperta dell’America e data in cui «come un virus, Colombo toccò tredici milioni di Amerindi e nel giro di trent’anni le isole su cui Calibano avrebbe abitato, ɘ abitanti di quelle isole erano mortɘ.» (p. 83. Lo so, avevo detto che non l’avrei più fatto ma questa è una citazione). In altre parole il 1492 è l’inizio del massacro perpetrato dagli europei delle popolazioni caraibiche, del Nord, del Centro e del Sud America. Si capisce che un nero americano di Filadelfia non sia perfettamente a suo agio sotto la statua del nostro Cristoforo nazionale o sotto quella di Thomas Jefferson. In effetti molti di noi, e io tra questi, non sarebbero a proprio agio se a Trieste, al centro di Piazza Unità d’Italia, dove Mussolini ha annunciato in un suo ahimè celebre discorso, la promulgazione delle Leggi Razziali, ci fosse la statua del Duce. Nello stesso tempo sembra folle cancellare tutte le targhe delle strade intestate a Cristoforo Colombo o abbattere le statue di Thomas Jefferson, terzo Presidente degli Stati Uniti, uno dei Padri Fondatori della democrazia americane e, indubbiamente, schiavista. A proposito, tanto perché sia chiaro di cosa parliamo, nel 2021 la statua di Jefferson è stata effettivamente rimossa dalla New York City Hall a seguito di una votazione tra i consiglieri comunali di New York e ricollocata nelle sale della New York Historical Society.
In sostanza, quello che colpisce il mio orecchio psicoanalitico, non è tanto la dislocazione di Jefferson o il fatto che la strada dove abita un mio amico non si chiami più via Colombo, anche se, alla lunga, trovarsi ad abitare in via dei Mughetti, stretta tra via degli Oleandri e Piazza Marmolada, diventa un po’ come abitare in un villaggio turistico. Piuttosto sono sensibile al meccanismo dell’autocensura, alla sensibilità virginea che impedisce a chi si schiera dalla parte dell’altro, del diverso, del mostro, dello sconfitto dalla storia, di nominare la differenza. A proposito, sapete che c’è un libro che si chiama proprio La parte dell’altro (Eric Emmanuel Schmitt, La parte dell’altro, tr. it. e-o 2007)? E’ interessante, magari a qualcuno viene voglia di leggerlo e forse perfino di dirne qualcosa in questo spazio.
Come vedete, siamo dentro a una flagrante contraddizione: mentre chiediamo ai neri americani di convivere con la statua di Jefferson, e non mi sorprenderebbe che da qualche parte ci fosse una statua di Cortez a Città del Messico, ci rifiutiamo di convivere con la statua del Duce in Piazza Unità d’Italia. Anche questa, anche questa contraddizione, non la possiamo che affrontare a partire dall’unica posizione che è la nostra. In particolare non posso che affrontarla dall’unica posizione che è la mia: bianco e maschio. Il che consente, almeno, di parlare con tutti e di tutto senza che la posizione che ci si trova ad occupare impedisca di ascoltare o di assumere la responsabilità della parola. 

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