01/02/2015

Je suis Charlie... Je ne suis pas Charlie


di Graciela Peña Alfaro

Quando, nel 2006, alcuni islamici hanno accusato il giornale satirico Charlie Hebdo di essere blasfemo, il suo direttore, Stéphane Charbonnier, ha risposto avanzando una proposta: “perché non fate anche voi un giornale satirico contro di noi, i laici?
Charbonnier dunque gli invitava a partecipare allo stesso registro, quello simbolico, e di “attaccare” con le stesse “armi”: la matita e la penna.  L’attacco invece ha stravolto i registri, dal Simbolico è passato al Reale e dalla matita al kalashnikov provocando l’orrore: l’uccisione di dodici persone includendo il direttore della rivista, altri tre vignettisti e decimando il consiglio di redazione.
Alcuni noti scrittori francesi come Antoine Compagnon e Nathalie Nothomb commentando questo orrore, hanno affermato che i fondamentalisti non sanno leggere, vale a dire, non sanno cogliere la pluralità di significati che può assumere una parola. La satira, effettivamente, si fonda sull’apertura a un altro senso, si nutre dell’ironia, gioca con la meravigliosa capacità dei doppi sensi.  Cos’è, dunque, che ha provocato tanta violenza? Per quale motivo i fondamentalisti da anni avevano individuato la redazione del Charlie Hebdo come un nemico da eliminare?  Qual era l’offesa che doveva essere lavata con il sangue?
Innanzitutto, occorre ricordare che l’odio, che è alla base della violenza, abita in tutti noi.  E’ l’odio il primo affetto che compare nella strutturazione dell’apparato psichico.   L’introduzione di un divieto –di un Reale, di un impossibile- da parte del padre è sovente vissuto dal bambino come una violenza ed è noto che è proprio il Reale, sessualizzato, ciò che consente l’accesso al desiderio. 
La violenza, dunque, forma parte del nostro universo psichico.  Attiene alla civiltà, tuttavia, porre del limiti alle pulsioni, sia alla pulsione di morte, sia alla pulsione sessuale.  L’immersione all’interno della società, con le sue istituzioni, i suoi valori, i suoi divieti offre delle vie maestre –la sublimazione e la rimozione- per far sì che l’espressione della violenza non provochi la distruzione dell’altro.  Charbonnier –Charb- affermava che proprio le vignette più dure e intransigenti consentivano di sublimare la violenza: “chissà cosa saremmo diventati senza la matita”, diceva.
Un altro elemento significativo che merita di essere considerato è che nel caso dell’eccidio del Charlie Hebdo così come in quello del supermercato kosher, gli attentatori erano, sì, dei francesi ma dei francesi le cui vicissitudini biografiche ed esistenziali li avevano confinato ai margini della società, un una sorta di nonluoghi, in spazi privi di un’espressione simbolica d’identità e di storia.  E’ stato paradossalmente proprio nel luogo dove sono stati espulsi, il carcere, dove hanno trovato un luogo nel quale hanno ottenuto ciò che finora era mancato loro, un riconoscimento.   L’appartenenza allo jihadismo e all’islamismo radicale ha dato loro la possibilità di trovare immaginariamente una filiazione riconoscendosi in un Altro –Allah, il Califfo- che assegnava loro una collocazione e un modo per raggiungere la trascendenza.
La questione del riconoscimento dell’altro e dell’Altro a cui costui fa riferimento acquista oggi un’importanza capitale nelle nostre società multiculturali.  E’ vero che la libertà di espressione costituisce un elemento fondante della nostra civiltà.  Tuttavia, occorre tener presente che anche la libertà di espressione, proprio per conservare la sua essenza, non può oltrepassare dei limiti. La stessa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789 stabiliva che la libertà consiste nel fare tutto ciò che non nuoce l’altro.
 Nella nostra società ipermoderna, frutto dell’economia neoliberale e di decenni di sviluppo vertiginoso della tecnoscienza, si fa sempre più fatica a riconoscere che stabilire dei limiti costituisce –tuttora- un elemento sine qua non per poter garantire la convivenza civile; si fa sempre più strada l’illusione che ognuno possa narcisisticamente godere a suo piacimento senza dover tener conto dell’altro.
Un altro elemento da prendere in considerazione è che nei paesi secolarizzati dell’occidente i conflitti che sorgono fra coloro che esprimono liberamente la propria opinione e coloro che aderiscono ciecamente all’islamismo radicale non si affrontano con lo stesso registro, quello Simbolico.  Esortare l’altro a far uso della parola anche quando s’irride ciò che per l’altro è sacro, inviolabile, che si configura come una Verità rivelata, è quanto meno ingenuo.  Vuol dire non prendere in considerazione che là si ha a che fare con un Reale, con un impossibile che, come tale, è fuori dal Simbolico.   Ciò che per uno è l’espressione legittima di un diritto –il diritto della libertà di espressione- per l’altro è un’azione blasfema che deve essere sanzionata con la morte.  Per i fondamentalisti, inoltre, uccidere chi si macchia di blasfemia è un’opportunità di raggiungere la trascendenza: uno dei fratelli Kouaschi aveva scritto: “i testi danno prova dei benefici degli attacchi suicidi.  E’ scritto nei testi che è bene morire martire”.
La nostra società ipermoderna è oltremodo complessa e frastagliata.  La diffusione globale di internet ha ridotto le distanze consentendo la circolazione dell’informazione al di là delle frontiere geopolitiche e in tempo reale.    Dall’altro canto, l’immensa disuguaglianza della distribuzione della ricchezza a livello mondiale ha rinvigorito le forze che vogliono trarre un vantaggio dalla fame e dallo scontento utilizzando come leva l’interpretazione fondamentalista della religione. 
All’interno di questo scenario, per i paesi occidentali che tengono a cuore la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, si pone una sfida assai delicata: innanzitutto, garantire che questo bene prezioso –la libertà di espressione- continui ad essere un diritto inalienabile.  L’immensa mobilitazione in Francia e nel mondo dopo gli attacchi al Charlie Hebdo testimonia che i cittadini non sono disposti a transigere su questo bene prezioso. 
La sfida, tuttavia, deve contemplare altresì che la libertà di espressione si deve coniugare con il ri-conoscimento dell’alterità.  L’altro è davvero un altro e di questa alterità io devo tenere conto.
La sfida è oltremodo delicata.   Bisogna ricordare ciò che diceva Charbonnier: “se domani rinunciassimo a disegnare Maometto, gli integralisti si spingerebbero ancora più in là.  Se cediamo, alla fine ci sarà soltanto una pagina bianca”. 
La sfida senza dubbio è ardua ma non impossibile.

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