01/01/2017

Elogio del vuoto


di Graciela Peña Alfaro

Il vuoto, secondo Aristotele, suscita orrore, l’horror vacui, dal quale persino la natura rifugge tentando di riempire ogni spazio.   Di tutt’altro avviso erano gli atomisti del VII secolo A.C. per i quali il vuoto era un elemento necessario; anzi, costituiva il principio per l’esistenza degli enti.  Era proprio il vuoto ciò che consentiva il movimento degli atomi. 
Noi, immersi nella contemporaneità siamo, da questo punto di vista, decisamente aristotelici.  Il vuoto ci provoca, se non orrore, quanto meno inquietudine, imbarazzo, mette a nudo davanti a noi stessi e agli altri la nostra incompletezza, la nostra limitatezza, la nostra solitudine.  E se nemmeno tanti decenni fa il vuoto, con la sua coorte di noia, di tedio, di fastidio era ritenuto una parte ineluttabile dell’esistenza, oggi il formidabile sviluppo dell’informatica ha mutato radicalmente il nostro modo di concepire la realtà offrendo la possibilità, ma solo immaginariamente, di sradicare il vuoto dalla nostra esistenza.
Alla fine del 1954, pochi anni dopo la nascita della cibernetica, Lacan presagiva che le macchine avrebbero rivoluzionato la vita degli uomini: “Il senso della macchina sta per cambiare completamente, per tutti voi, che abbiate o meno aperto un libro di cibernetica” e a metà degli anni Settanta Bill Gates profetizzava che in un futuro in ogni casa ci sarebbe stato un computer “con il quale lavorare, imparare e divertirsi”.
Oggi il computer è diventato tascabile –lo smartphone-  e un’immensa quantità di abitanti della terra ne possiede uno.  Oltre alle sue straordinarie potenzialità, questo piccolo aggeggio ha al contempo spalancato un’inedita voracità dell’occhio, della pulsione scopica.  Se secondo un vecchio proverbio “anche l’occhio vuole la sua parte” oggi possiamo dire che l'occhio è diventato avido e ingordo.  Esige in continuazione degli stimoli che questo piccolo aggeggio può sfornare ininterrottamente ovunque: mentre si cammina per strada, mentre si è con altri al bar, a casa, al lavoro, nei mezzi pubblici. 
Questo connubio nella nostra contemporaneità fra uomo e macchina ha reso l’esistenza di spazi vuoti assolutamente intollerabile.  Ci si può domandare cos’è che spinge l’uomo moderno in modo così impellente a rimanere attaccato a un oggetto che offre un godimento fondamentalmente scopico, un godimento dello sguardo. 
Possiamo pensare che così come nello stadio dello specchio l’immagine di completezza riflessa nello specchio fungeva da “forma ortopedica” per un corpo-in-frammenti, lo smartphone con le sue molteplici funzioni, sembra anche esso offrire un sostegno a un soggetto che, sostenuto precariamente su una struttura simbolica esile, necessita di un appoggio per reggersi. 
La completezza, che nello specchio compariva come un’immagine che dava l’illusione di unità e padronanza, in questo caso è fornita da un mezzo con il quale si crede di avere accesso a tutto contemporaneamente, senza alcun resto, senza alcuna perdita; un mezzo che funge illusoriamente come inesauribile bocca della verità, che risponde a “tutte” le domande, dissolve dubbi, fornisce seduta stante i dati richieste con un sigillo di garanzia di autenticità: “l’ho letto su internet”, dicono alcuni ed è come se ciò che dicono fosse incontrovertibile.  Un mezzo di questa natura ben si adatta a un soggetto che non tollera l’esistenza di buchi di sapere, di incertezze, di una verità che può essere detta solo a metà.
La promessa di completezza, tuttavia, è costantemente disattesa: la velocità con la quale le dita della mano si muovono per far scorrere lo schermo testimonia lo iato che ogni immagine apre, il vuoto che attesta che la promessa del tutto è fittizia. 
Davanti allo schermo, nel taglio fra l’occhio e lo sguardo, ha luogo una continua e fuggevole manifestazione del reale della castrazione che si esprime attraverso la continua constatazione dell’incompletezza di ogni immagine, nell’impossibilità di poter cogliere tutto nello stesso tempo.  Avviene, dunque, un alternarsi tra la presenza fuggevole del reale della castrazione e l’illusione immaginaria di poter muoversi in un ambito ignaro dei limiti dello spazio e del tempo. Questo movimento, questo alternarsi viene costantemente ripetuto.  L’illusione di poter eliminare il vuoto alimenta l’appetito dell’occhio, il suo fascino, l’estrema difficolta di interrompere questo meccanismo.
E tuttavia il vuoto è prodigioso.  Noi stessi in quanto soggetti siamo frutto di un taglio che ha creato un vuoto e il nostro desiderio, che è l’elemento più prezioso che ognuno possiede, proviene anche esso da un vuoto. 
Per concludere, vorrei fare riferimento al bellissimo film di Jim Jarmusch, Paterson.  Alla fine del film, il protagonista, al quale un evento della vita quotidiana gli ha strappato la sua anima di poeta, siede da solo su una panchina isolata dal mondo mentre guarda il suo spettacolo favorito, il fiume.  All’improvviso arriva a sedersi accanto a lui un uomo giapponese –e non è un caso che si tratti proprio di un giapponese- che prima di congedarsi da lui dopo una breve conversazione, gli lascia come dono un quaderno con tutte le pagine bianche.  Appena rimane di nuovo solo, Paterson, il protagonista, tira fuori dalla tasca una matita e ricomincia a scrivere.  Il vuoto, la pagina bianca, gli ha restituito la sua anima, la sua poesia.    

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