01/04/2016

Chi ne risponde?


di Graciela Peña Alfaro

Il verbo rispondere, fra altre accezioni, allude al rendere conto delle proprie azioni.  Per questo motivo, la frase scritta da Dante Alighieri nel De Vulgaris Eloquentia a proposito dell’origine della parola negli umani, “l’uomo parlò rispondendoè particolarmente significativa.  Effettivamente, in modo semplice e chiaro articola la parola al soggetto; la parola all’assunzione della propria soggettività.  
Rileggendo il caso Dora di Freud, Lacan racchiude uno degli interventi di Freud con la frase: “Guarda la parte che hai nel disordine che lamenti”.  Detto altrimenti: della posizione che occupi, sei chiamata a rispondere.
Dal momento della cacciata dal Paradiso le domande e le risposte si sono susseguite e fin dall’inizio è comparso nitidamente il moto liberatorio di attribuire all’altro, al simile, la responsabilità dei propri atti. 
Nondimeno, giunge il momento per il quale per ognuno s’imporrebbe in modo non differibile l’esigenza di rendere conto “della parte che si ha nel disordine che si lamenta”.  Se non altro, perché il mal di vivere può raggiungere dei livelli di insopportabilità che esigerebbero –e qui il condizionale è assolutamente necessario- di porsi nel centro della scena, della propria piccola scena, e di rispondere in prima persona.
Tuttavia, è chiaro che i movimenti che ognuno eventualmente può compiere per mutare la propria posizione sono necessariamente delimitati da un Reale, da un impossibile, oltre il quale non si può andare. 
Ora, il Reale non è né giusto né ingiusto, né buono né cattivo.  Poiché la sua natura è attaccata alla suola della sua scarpa, il Reale semplicemente è.  Certo che come misura rasserenante nel corso della storia l’uomo, rifiutandosi di sentirsi solo, in balia di forze misteriose, ha sentito l’esigenza di porre nell’Altro un Padre incarnato; un Padre che lo sgravi dall’essere confrontato a un Reale che non offre nient’altro che l’impossibilità di alcuna risoluzione, senza alcuna consolazione, senza alcun perdono, insensibile a qualunque preghiera. 
La caduta degli Dei, avvenuta da alcuni decenni, ha portato, insieme allo strepitio del loro crollo, uno scompaginamento del modo nel quale l’uomo per secoli ha guardato e interpretato la sua realtà.  Alla frase “è stata la volontà di Dio”, oppure “se Dio lo vuole”, ora si oppone la rivendicazione espressa in modo fermo e quasi con stizza affinché qualcuno ponga rimedi alle “ingiustizie” del Reale. 
Si esige che tanto la tecnoscienza quanto la legislazione vigente accorrano –rispondano-  per sopperire alle disuguaglianze imposte da un Reale che “non tiene conto” dell’aspirazione “legittima” di soddisfare tutto ciò che si vuole? si desidera?  Non si tollera che alcune aspirazioni entrino all’interno di una spirale metamorfica e che, sublimandosi, riescano a conservare la loro spinta vitale diventando, però, altro. 
Divenuto orfano, l’uomo non può più rivolgersi al Padre per chiedergli di essere sostenuto per affrontare le frustrazioni, le difficoltà, le perdite che in maggior o minor grado formano parte della vita degli umani.  Senza più un Padre, l’attenzione si volge verso il fratello, il simile, all’interno di una dinamica che, a guisa di un gioco di specchi deformanti, riduce la complessità esistenziale a una rivalità irreducibile e onnipresente.
Assistiamo nell’epoca contemporanea, pertanto, a una concezione inedita, che si distanzia e si distingue da ciò per che secoli l’ha preceduta.  Da una parte, non si tollera l’esistenza de La differenza.  Non una differenza in questo o quel altro campo ma che esista la o le differenze.  La differenza principe fra gli esseri mortali, quella sessuale/sessuata, differenza consustanziale alla riproduzione della vita, ebbene, persino quella differenza è vista con sospetto, come se in un modo nemmeno tanto velato celasse un’ingiustizia alla quale occorre porre rimedio.
Ma perché un uomo può avere dei figli anche se è settantenne e una donna no?  Ma perché una coppia eterosessuale può fare un bambino e una coppia omosessuale no?  Ma perché una delle partner di una coppia di donne omosessuali può fare un bambino che abbia il suo corredo genetico e un uomo no?  E via discorrendo.
Da un parte, dunque, la pretesa individuale e sociale che si risponda alla richiesta di rettificare un Reale ingiusto, dove esiste la differenza e, pertanto, la mancanza.  Da un’altra, una manifestazione oltremodo disinvolta di “scordarsi” di dover rispondere della propria posizione e dei propri atti. 
Il rifiuto di dover rispondere in prima persona non è casuale.  Tutt’altro.  E’ l’espressione di una cultura, della nostra cultura cattolica, che nonostante la secolarizzazione, trascina un sedimento storico che determina una certa visione del mondo, della società, della morale.  E’ importante ricordare l’eredità lasciataci dal cattolicesimo della pratica delle indulgenze per farsi perdonare i peccati.  In Italia non solo abbiamo conservato questa pratica “dell’indulgenza” ma abbiamo raggiunto l’apoteosi con l’idea che sia da ammirare colui che riesce a non rispondere; colui che riesce a “farsi i fatti propri” senza dover rendere conto a nessuno. 
A livello sociale, ci siamo assuefatti all’idea che per alcuni comportamenti sregolati, nessuno risponda.  Ci sembra ormai naturale che dietro alcune azioni ci sia un Innominato, qualcuno senza nome e senza volto.  Come nella commedia di Lope de Vega Fuente Ovejuna, pubblicata a Madrid nel 1617, nella quale il giudice, non potendo individuare il colpevole di un crimine, assolve tutto il popolo.
E pensare che l’unico modo per poter aspirare ad essere meno sottomessi è rispondendo…
 
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