Rubrica: Un libro al mese


Aprile 2025
 
Fabrizio Gambini

 
Marx per Lacan, paginaotto, Trento 2024
 
Vado subito alla questione. La psicoanalisi non può produrre una politica. Non è un «non potere» che si situa dal lato dell’impotenza, come nella frase «non posso giocare finché non ho fatto i compiti». Questa è una frase che presuppone un dovere morale, un imperativo; dovere che la lingua tedesca, quella di Marx e di Freud, traduce con il verbo sollen; è un «non potere» che può tradursi con «non mi è permesso».
Piuttosto, quella che riguarda propriamente la psicoanalisi è un’impossibilità, come nella frase «non posso correre i cento metri in meno di nove secondi». Qui, non è che non se ne abbia il permesso. Il «non potere» non è più il corrispettivo di un dovere.
È a causa di questa impossibilità che la psicoanalisi gira comunque attorno alla centralità della nozione di scacco, di fallimento. Nel suo esercizio, la psicoanalisi non può che mancare le proprie promesse.
Di questa impossibilità, di questo modo di intendere il suo «non potere», c’è un reciproco. Lacan riprende infatti la celeberrima espressione freudiana, Wo Es war, soll Ich werden:
 
Wo Es war, ci dice, soll Ich werden, e vi ho insegnato a rileggerla l’ultima volta: Wo $ tat, e mi permetterete di scrivere questo es con la lettera (S) barrata, là dove il significante agiva – nel doppio senso in cui cessa e cominciava appena ad agire – non come soll Ich werden, ma muß Ich, io che agisco. Io che lancio nel mondo ciò a cui ci si potrà indirizzare come a una ragione, muß Ich ‘a’ werden, di ciò  che io introduco come nuovo ordine nel mondo, devo diventare il rifiuto. (nota 1)
 
Il reciproco dell’impossibilità propria della psicoanalisi non è qui il sollen, che abbiamo visto, bensì il mußen, il dovere inteso come responsivo a una legge naturale che non può non attuarsi. Qualcosa del genere: «Prima o poi deve piovere».
Vorrei partire da qui per dire qualcosa di questo bel libro che giustappone, e in qualche
modo collaziona, concetti marxiani e concetti lacaniani. Là dove (nel libro) si è alla ricerca di una continuità – che c’è, e vedremo come – vorrei insomma partire piuttosto da una cesura, da una differenza: il pensiero di Marx è un pensiero politico, quello di Lacan non lo è.
Entrambi, Marx e Lacan, rileggono Hegel. In particolare Lacan lo rilegge anche attraverso la lente delle lezioni che Kojève aveva tenuto alla Sorbona nella seconda metà degli anni Trenta.
In ogni caso per entrambi è centrale il riferimento a un passaggio celebre della Fenomenologia dello spirito:
 
Nell’autocoscienza immediata l’Io semplice è l’oggetto assoluto, che peraltro per noi o in sé è l’assoluta mediazione, e ha per momento essenziale l’indipendenza sussistente. Resultato della prima esperienza è la risoluzione di quell’unità semplice; mediante quell’esperienza son poste un’autocoscienza pura e una coscienza la quale non è pura per sé stessa, ma per un altro: vale a dire che è come coscienza nell’elemento dell’essere o nella figura della cosalità. Entrambi i momenti sono essenziali; poiché da prima essi sono ineguali ed opposti, e la loro riflessione nell’unità non è ancora risultata, essi sono come due opposte figure della coscienza: l’una è la coscienza indipendente alla quale è essenza l’esser-per-sé; l’altra è la coscienza dipendente alla quale è essenza la vita o l’essere per un altro; l’uno è il signore, l’altro il servo. (nota 2)
 
Capiamo bene: «signore» e «servo» sono metafore e contemporaneamente non lo sono. Da un lato, metaforicamente, «signore» è la «coscienza indipendente alla quale è essenza l’esser-per-se» e «servo» è la «coscienza dipendente alla quale è essenza la vita o l’essere per un altro.» Vedete bene che non siamo poi tanto lontani da Cartesio: il cogito come «coscienza indipendente» e l’essere, il sum come «coscienza dipendente». Dall’altro lato però, non tanto metaforicamente, signore e servo si fronteggiano dialetticamente in una lotta che è, per Hegel, il motore della Storia. In questo Marx è perfettamente hegeliano, Lacan invece non lo è. Il discorso della Psicoanalisi, in quanto soggiacente alla logica della dialettica hegeliana, ma, direi in quanto soggiacente a ogni dialettica politica, è uno dei quattro Discorsi che la posizione analitica, la sospensione di giudizio propria della posizione analitica, consente di individuare sottotraccia, consente cioè di tracciare come un sapere privo di soggetto al quale lo psicoanalista non manca di appoggiarsi. Questa lettura della dialettica hegeliana tra dipendenza e indipendenza dell’autocoscienza ha, di conseguenza, per noi una duplice valenza.
Partiamo dalla «coscienza indipendente alla quale è essenza l’essere per sé». Non vi pare che assomigli al cogito? Ad un atto del pensare che si vuole privo di oggetto: penso, indipendentemente da cosa penso. Ma, naturalmente, non si può pensare senza pensare qualcosa. Ed eccoci dunque con l’oggetto tra i piedi, con l’oggetto necessario del nostro pensiero. Quando noi siamo l’oggetto del nostro pensiero (penso, dunque sono), ci troviamo di fronte la seconda figura: «la coscienza dipendente alla quale è essenziale la vita o l’essere per un altro.» Questo altro è tutto quello che possiamo cogliere del soggetto grammaticale dell’io penso, il soggetto supposto al cogito, e possiamo solo coglierlo attraverso l’identificazione. La posizione analitica tiene conto di questo con un movimento, con un posizionamento, che situa in uno dei quattro vertici della struttura nel posto dell’io non penso. (nota 3) Questo significa che nel discorso della Psicoanalisi non siamo di fronte ad una dialettica tra il soggetto del cogito, il soggetto supposto al cogito, e l’Io del quale l’autocoscienza proietta la tesi. Il loro rapporto non è dialettico. La loro contrapposizione è un’apparenza, dietro la quale si maschera il motore reale del nostro funzionamento psichico. Si tratta di un reale, che come è proprio del Reale in sé, in quanto tale, non può che essere colto attraverso un sembiante: il sembiante dei quattro discorsi.
Di questa dialettica hegeliana, di questa dialettica tra servo e signore come motore della storia, della dialettica tra le due forme dell’autocoscienza che si rincorrono in eterno, Marx dà però una lettura, che per quanto la si voglia dire hegeliana, si avvicina molto all’aver colto qualcosa del reale del processo. È il concetto di plusvalore del quale Lacan dice che il più-di-godere non è un’analogia, bensì un’omologia; sono proprio la stessa cosa:
 
Il più-di-godere è intervenuto nei miei discorsi più recenti in funzione omologica rispetto al plusvalore marxista. Parlare di omologia significa dire che il loro rapporto non è di analogia. Si tratta proprio della stessa cosa. Si tratta della stessa stoffa, poiché si tratta del colpo di forbice del discorso. (nota 4)

Il più-di-godere non è insomma un concetto ricalcato per analogia su quello marxiano di plusvalore. Plusvalore e più-di-godere sono proprio la stessa cosa. E, appena un anno dopo:
 
Il piccolo a che è la, riconosciuto come funzionante (al livello in cui si articola nel discorso analitico, non in un altro) riconosciuto in quanto più-di-godere, ebbene, è questo che Marx come scopre come ciò che succede davvero al livello del plusvalore. Poiché, naturalmente, non è Marx che ha inventato il plusvalore. Solo che prima di lui, nessuno sapeva quale posto avesse il plusvalore stesso, lo stesso posto ambiguo che ho appena indicato. Del lavoro di troppo, del più-di-lavoro, che cosa si paga con questo, dice Marx, se non proprio un po’ di godimento? (nota 5)
 
Mi azzardo a dire qualcosa di come capisco io la faccenda dal punto di vista, diciamo così, politico.
La lotta di classe rovescia il sistema capitalista, lo rivoluziona. Il punto è che la Rivoluzione non comporta la caduta della funzione del plusvalore. Plusvalore era quello che ha finanziato la messa in orbita della cagnetta Laika da parte dell’URSS nel 1957, plusvalore era quello che ha finanziato la costruzione dei carri armati che hanno arrestato l’avanzata di Hitler, plusvalore era quello che ha finanziato l’apparato del PCUS e plusvalore era quello che ha finanziato le dacie dei membri del Politburo. Detto in altre parole la Rivoluzione non è stata una Rivoluzione, bensì una rivoluzione: un’orbita, come un pianeta che ruoti attorno al Sole e compia un’ellissi completa per tornare allo stesso posto. (nota 6) Posto legato, diciamo così, al resto inapparente che
si produce. Dunque, in qualche modo è della prevaricazione dell’uomo sull’uomo che si tratta. È questo che è inemendabile e la psicoanalisi certo non lo cura ma, come avviene con l’invenzione di Marx, lo rende articolabile nel discorso come un fatto di struttura.
Ora, a mio modo di vedere non c’è modo di capire fino in fondo l’affermazione di Lacan che plusvalore e più-di godere sono proprio la stessa cosa. Non c’è modo se manteniamo da un lato il campo dell’economia politica e dall’altro il campo della psicoanalisi. Nella separazione tra i due campi infatti a me pare che plusvalore e più-di-godere possono solo avere tra loro un rapporto di analogia. Di questa analogia occorre ribadire il senso e il suo rapporto col godimento: il godimento è apparente, è in piena luce.
L’esclusione dai rapporti sociali della felicità fallica comporta il suo ritorno in forme simbolizzate, umanizzate. Un padrone gode di uno schiavo come di una schiava o di una donna. Il godimento sembra il motore del processo. La felicità fallica è presa a modello dal portatore del fallo, quando questo si trovi nella condizione del signore, del padrone, per fingere che sia oggetto causa di desiderio. Succede naturalmente anche agli schiavi, tant’è vero che la letteratura è piena del vero terrore che la violenza della schiavitù in rivolta potesse esercitarsi sul corpo del padrone. Dalla Roma di Spartaco all’America di Jefferson è tutto un costante tentativo di mantenere invalicabile la frontiera tra servo e padrone, tra coscienza e inconscio. Ma, ci dice Lacan, questo godimento è apparente. Appare a partire dalla sua esclusione, dal fatto che gli uomini, da  quando si sono costituiti in una qualche forma di relazione sociale tra loro, hanno cessato di far coincidere l’atto sessuale con la copertura di femmine in calore da parte di maschi letteralmente portati dal proprio fallo.
Con il legame sociale il maschio ne è piuttosto diventato il portatore ne è, ribadisce Lacan, ingombrato. Ciò che guida il legame sociale, dunque, non è il godimento fallico della cui esclusione abbiamo detto, ma il più-di-godere. Quel che c’è non è invece, ma oltre il godimento. 
Fin qui l’analogia. Ma perché Lacan ci dice che si tratta invece di omologia? Che plusvalore e più-di-godimento sono proprio la stessa cosa? Per tentare di rispondere a questa domanda dobbiamo far ricorso ai matemi e, in particolare, al loro essere tutt’altro che risolutivi della questione.

discorso del Padrone
discorso dell’Isteria
discorso dell’Analista
discorso dell’Università
 
È solo nella formalizzazione che l’omologia può prendere senso. Per farmi capire faccio un esempio:

cane: cuccia = uccello : nido
che, ulteriormente formalizzato, diventa:
A : B = C : D.

Nel primo caso le parole indicano degli oggetti del mondo per cui capiamo la proporzione a partiredal senso delle parole. A nessuno verrebbe mai da scrivere: balena : scrivania = penna : fotografia. Non ha senso. Ma se passiamo all’algebrizzazione, A,B,C, e D possono indicare qualsiasi cosa. La cosa che la proporzione fissa, la cosa alla quale la proporzione obbliga sono i rapporti tra gli elementi indicati. E qui sta il problema.
Lacan, come Martin Luther King, aveva un sogno. Il suo sogno era che il campo del godimento finisse per chiamarsi «campo lacaniano». Non si trattava di smania di protagonismo, voleva piuttosto fondare scientificamente la psicoanalisi, come Marx aveva fondato l’economia politica. Voleva aprire il campo a matemi che introducessero delle notazioni algebriche capaci di guidare operazioni logiche senza il riferimento ingombrante e fuorviante al godimento del senso che, come sapete si trova nello spazio del nodo definito dalla sovrapposizione dell’Immaginario e del Simbolico: nessun rapporto col Reale.

 
Di questo tentativo prevedeva lo scacco: «non si chiamerà mai campo lacaniano in quanto sicuramente non ne avrò il tempo…» (nota 7). È il fallimento preconizzato del campo lacaniano, fallimento che Lacan intravedeva al di là del proprio desiderio. Questo non gli ha impedito però di continuare a lavorare, di continuare a pensare che nei matemi potesse trovarsi la chiave per dire qualcosa di nuovo, in particolare definire una funzione, il più-di-godimento, che in quanto funzione algebrica, matematizzata, potesse dire qualcosa del reale di ciò che la nozione di godimento nasconde. È un vecchio sogno che, malgrado il positivismo di Freud, si inaugura comunque con la scrittura di Psicologia delle masse e analisi dell’io, ed è un sogno che siamo tenuti a continuare a sognare, obbligati, come siamo, a farcene qualcosa dell’insegnamento di Freud e di Lacan.
Oggi si tratta per noi di mantenere vivo quel desiderio e limitare il proprio, il nostro godimento, a stare nella posizione di un oggetto di scarto, di un oggetto inutile, di un oggetto, per usare la parola che si impone, perduto e, come sempre, Lacan ci viene in soccorso, ci viene dolorosamente in aiuto: «L’essenziale non è sicuramente di rifare di questo elemento un elemento di padronanza e di dominio, poiché come vi spiegherò, tutto gira attorno all’insuccesso.» (nota 8) Insuccesso aggiungerò, e con questo concludo, che non è una forma di impotenza, bensì il portato necessario di un impossibile.

1 J. Lacan, L’acte psychanalytique, Séminaire 1967 – 1968, Edizione fuori commercio dell’Association Lacanienne Internationale, Lezione del 17 gennaio 1968, p. 103.
2 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, pp. 158 e 159.
3 Il riferimento è al tetraedro che Lacan costruisce nelle lezioni V, VI e VII del Seminari
o su L’atto analitico, cit.
4 J. Lacan, Il Seminario, Libro XVI, Da un Altro all’altro 1968 – 1969, Einaudi 2019, p. 39.
5 J. Lacan, L’envers de la psychanalyse, Séminaire 1969 – 1970, Edizione fuori commercio dell’Association lacanienne internationale, lezione del 26 novembre 1969, p 20.
6 Ivi, lezione del 21 gennaio 1970, p. 72: «Ho già detto dell’ambiguità del termine che può voler dire anche rivoluzione nel senso in cui la si intende nella meccanica celeste, ovvero ritorno all’inizio.»
7 Ivi, p. 97.
8 J. Lacan, L’envers…cit. p. 99.

Rubrica: non un libro ma un film


Antigone s’è fottut’a Creonte
 
Fabrizio Gambini

Paolo Sorrentino, Parthenope, Film, Italia - Francia 2024.
 
Questa volta non è un libro, ma un film. È un film che parla agli psicoanalisti e, in particolare, parla agli psicoanalisti che sono avvezzi a riferirsi alle formule della sessuazione nel lavoro di Jacques Lacan: le formule, i matemi che algebrizzano la scelta sessuale che ogni soggetto è portato a compiere. Questi matemi però non indicano i due sessi, piuttosto il modo della divisione soggettiva che riguarda ognuno.
Se un’identificazione totale al lato maschile della divisione sessuale fa di un uomo uno stupratore seriale, un figuro affetto specie di priapismo che non ha limite se non nella brutalità di un fallo che lo sovrasti, un’identificazione totale al lato femminile produce invece qualcosa del genere di quel che Sorrentino si è sforzato, riuscendoci, di mettere in scena con Parthenope.
Parthenope è una meravigliosa donna che convive con tutto, che vive tutto, che può godere di tutto: amore, cultura, camorra, superstizione, potere, fede, blasfemia. Dal suo lato, dal lato della donna che è Parthenope, nessun confine, nessuna barriera da infrangere, o da rispettare, piuttosto un’apertura totale, un’accoglienza e un godimento senza limiti.
Quella di Parthenope è una posizione politicamente oscena e la sua oscenità è quella di non schierarsi mai, di non rifiutarsi mai. Può godere dell’amore incestuoso del fratello, perfino della sua morte ricevuta come un omaggio, può godere dell’amore tenero e giovanile di un bravo ragazzo come dell’amore di un camorrista fatto e finito, può godere delle attenzioni per altro nient’affatto lubriche di un professore universitario, può godere delle attenzioni, questa volta lubriche, di un alto prelato al quale resta solo la blasfemia. Tutto passa, tutto la ama, tutto esiste in quanto l’ama e niente di ciò che non l’ama esiste.
Parthenope, con la sua bellezza, testimonia di una posizione politicamente oscena, ma è una posizione che non è senza evocare un discorso, un sembiante, quello psicoanalitico che non è un discorso politico. Anzi, a voler dire le cose col loro nome, quello politico non è un discorso, bensì la messa in ombra, necessaria in quanto siamo umani, della logica dei discorsi. Ma, ripeto, quella psicoanalitica non è una posizione politica. Gli psicoanalisti non sono Parthenope. Gli psicoanalisti invece sono, come tutti, creature politiche, zoon politikon. In quanto cittadini sono dalla parte di Creonte, della legge della Polis. Ma a causa del loro essere psicoanalisti, lasciano spazio e a che dell’analista ci sia e riconoscono, come Antigone e come Parthenope, che c’è dell’Eteocle in Polinice e del Polinice in Eteocle. Per questo Partenope parla loro, con l’oscenità della sua posizione. Che non è quella della povera Antigone.
Antigone non è partecipe della vita della polis, è già morta alla vita politica e sociale. La decisione di Creonte, i funerali di Stato per Eteocle e il cadavere di Polinice lasciato alla corruzione e a far da cibo agli animali, mette Antigone di fronte alla sua divisione: c’è qualcosa di Polinice in Eteocle e c’è qualcosa di Eteocle in Polinice. I due non sono totalmente separabili. D’altronde i quattro figli di Edipo e di Giocasta sono soli ad essere stati strappati alla loro infanzia felice da un sapere che ha fatto di loro i fratelli e le sorelle di loro padre e i nipoti e i figli della loro mamma e nonna. Sapere, dunque, che espelle i quattro ragazzi dalla polis, che li estromette dalla legge costitutiva della polis, della civiltà e del legame sociale. I quattro, insomma, non sono degli animali politici. Per questo Antigone non comprende la decisione politica di Creonte. È sulle spalle di Creonte che cade il peso, il dovere d’una scelta politica, una scelta basata sulla forza immaginaria e simbolica del due: Eteocle e Polinice, il buono e il cattivo, il giusto e lo sbagliato. Non è così per Antigone. Malgrado il suo nome che sembra indicare una posizione ‘anti’, d’opposizione, per lei non è questione della forza del due. Polinice non è il cattivo e Eteocle non è il buono. Piuttosto, c’è del Polinice in Eteocle e viceversa. 
Apparentemente anche noi, gli psicoanalisti, abbiamo due modalità logiche, algebriche, di far valere la presenza dell’oggetto e la posizione soggettiva: lato maschile e lato femminile. Ma l’algebra non è la vita.
Lo sapeva bene Borges che parla, magnificamente, della morte come del momento di raggiungere «l’algebra del proprio specchio». (cfr. nota) Resta che dal lato femminile noi constatiamo che la donna non è tutta e che dal lato maschile si può cercare di essere tutto al prezzo di diventare del tutto imbecille: identificato al fallo piuttosto che d’esserne ingombrato.
Detto in altre parole, c’è dell’uomo nella donna come c’è della donna nell’uomo. Gli esseri umani non funzionano alla sola logica del due. Senza essere isterici noi, gli psicoanalisti, siamo necessariamente dal lato di Antigone, ma la sua posizione, che è necessaria per poter tenere una posizione analitica, non è però sufficiente. Al contrario, la posizione di Creonte, e anche lui poveretto era diviso, impedisce in quanto posizione politica, di potersi trovare a occupare il posto dello psicoanalista. Per questo Parthenope ci parla. È un’Antigone che è riuscita a sedurre Creonte: se l’è fottuto.

NOTA: Jorge Louis Borges, «Elogio dell’ombra», in Opere, Mondadori, Milano 1985, vol. II, p. 363.

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