Denise Saint Fare Garnot


E’ con profondo dispiacere che diciamo addio a Denise Saint Fare Garnot. Per me, per molti colleghi di l’Ali-Torino, di Ali in Italia, è stato il primo incontro con l’ALI, una presenza preziosa, stabile e discreta, che ci ha accolti, ci ha orientati, incoraggiati e sostenuti al lavoro. Instancabile, ha testimoniato una fiducia ferma nella psicoanalisi di Lacan e nello stile che Charles Melman e i fondatori dell’Ali hanno voluto imprimere alla sua trasmissione. Ne è stata fin dai primi tempi, e fino agli ultimi, promotrice, custode e memoria.
Ricordiamo la sua capacità di tenere i legami, la sua generosità e anche il suo rigore senza cedimenti, che la sua gentilezza e il suo sorriso luminoso non nascondeva.
E’ con gratitudine che ne restiamo tutti debitori.
 
Renata Miletto

Rubrica: Un libro al mese


Settembre 2024
 
Fabrizio Gambini

 
Daniel Mendelsohn. Estasi e terrore, Einaudi 2024.
 
La bella e abbastanza recente edizione critica di Petrolio a cura di Walter Siti (nota 1) inizia con una lettera accorata dell’autore ad Alberto Moravia. Pasolini chiede un parere all’amico e allo scrittore e il parere riguarda una questione che riassumo nel modo seguente: è possibile, legittima, utile e, in ultima analisi, leggibile una scrittura, in particolare la scrittura di un romanzo, che non solo riguardi aspetti propri della realtà, ovvero che nell’invenzione romanzesca si palesi una realtà più reale di quella che usualmente conosciamo attraverso la cronaca o la storia, ma, ed è questo l’aspetto della questione che sembra stare più a cuore a Pasolini, è legittimo, possibile, utile e leggibile una scrittura che, assieme al suo prodotto, descriva la mano stessa che scrive? È possibile che uno scrittore scriva del processo della scrittura, di sé che scrive, nel momento stesso del farsi della scrittura? La lettera di Pasolini, e non abbiamo la risposta di Moravia, fa l’effetto di un quadro di Escher; ricordate, una mano che disegna la mano dalla quale è disegnata.
Se non abbiamo la risposta di Moravia, abbiamo però il libro di Daniel Mendelsohn che non risponde a Pasolini né lo cita, eppure la lettura del libro di Mendelsohn mi ha permesso di rinnovare l’interesse per la questione di Pasolini e di dare un certo taglio alle mie riflessioni in proposito.
Una premessa: per uno psicoanalista la conoscenza della mano dietro al testo manifesto non è uno svelare. Semplicemente, è un testo che si aggiunge al testo prodotto dalla mano. Lacan ad un certo punto del suo insegnamento parla dell’Edipo di Freud come del “testo manifesto del sogno di Freud”, ovvero non è di uno svelamento di Sofocle o del mito che si tratta, bensì di una ri-velazione: un velo, un secondo testo manifesto, quello di Freud, che si giustappone ad un altro testo, quello di Sofocle. In entrambi i testi insiste qualcosa che resta al di là della possibilità di svelamento. Per uno psicoanalista questa è una questione vitale poiché riguarda la sacralità dello spazio dietro le quinte, la sacralità della scena supposta dietro la scena apparente. In altre parole, si tratta dello status della funzione dell’inconscio. Quando questa sacralità non è tenuta nel debito conto, assistiamo ad analisi condotte in modo tale da rendere il sapere inconscio un sapere saputo, svelato, col risultato che un analizzante si trova schiacciato nella posizione di analizzato:
qualcuno che vede svelata, piuttosto che ri-velata, la verità su sé stesso.
Eccoci dunque al testo di Mendelsohn che, a suo modo, illumina la questione. Il testo è composto da una serie di saggi critici che vanno dalle tragedie greche alle fiction televisive americane e alla letteratura. Per cogliere o, meglio, per riprodurre l’impressione che ho tratto dalla lettura potrei partire da questo, da un approccio forse fino troppo personale al quale però è lo stesso Mendelsohn che mi autorizza. Come Mendelsohn anch’io ho letto molti anni fa Il ragazzo persiano di Mary Renault. Mi sono goduto ingenuamente, in modo, direi, totalmente naïf , la lettura del bel romanzo. Sono stato catturato dall’epos di Alessandro Magno, dal suo pothos, dalla sua sete, dalla sua smania di sapere, di vedere, di conquistare un impero che non era solo da sottomettere, bensì da abitare, da conoscere, da vivere. Mi sono goduto la storia vista in parte attraverso gli occhi di un ragazzo persiano, un giovane eunuco appartenuto a Dario e parte del suo stretto entourage. Un ragazzo che, con la sconfitta di Dario, passa di mano e che si innamora, forse in parte ricambiato, di Alessandro. Certo, mi dispiaceva un po' per il ragazzino, per la sua mutilazione, per la sua schiavitù, ma per me era rimasto al rango di un personaggio attraverso il cui sguardo si coglieva l’insieme dell’epos alessandrino.
Leggendo Mendelsohn ho scoperto che Mary Renault era omosessuale, che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si era trasferita con la propria compagna in Sud Africa dove aveva vissuto fino alla morte animando una discreta cerchia di amicizie segnate, dice Mendelsohn, dall’ideale greco:
 
«Mary voleva che i suoi amici uomini incarnassero l’ideale greco», disse. Io ero un antichista, e sapevo benissimo che l’‘ideale greco’ non era che un’invenzione degli ‘invertiti’ vittoriani che, come Renault, proiettavano su un remoto passato il loro pothos per una società più aperta. L’‘ideale greco’…cosa significava nella vita reale? Quando glielo chiesi, Murray mi rispose: «Le piaceva che i suoi amici fossero accoppiati». Mi zittii e continuai ad ascoltare le loro storie. (nota 2)
 
Per Mendelsohn la lettura de Il ragazzo persiano è stata una rivelazione e l’inizio di un’amicizia, di una scambio epistolare, durato sostanzialmente tutta una vita. Per dire di fino a che punto un libro è nello sguardo di chi lo legge.
Allora, torno alla questione: la conoscenza della biografia di Mary Renault ci fa fare un passo in più nella fruizione del testo del suo libro? O è la sensibilità di Daniel Mendelsohn che consente di cogliere nella scelta sessuale dell’autrice qualcosa che aggiunge profondità, pathos e verità al
testo del suo romanzo? Non è una questione oziosa né tantomeno è una questione retorica. Per questo il libro di Mendelsohn è prezioso: mi ha fatto pensare che se serve una sensibilità ‘queer’ per cogliere qualcosa che altrimenti rischia di perdersi è altrettanto vero che serve una sensibilità stolidamente etero per mantenere la propria inconsapevolezza rispetto ad un testo scritto, diciamo così, nell’alveo della cultura dominante. Cos’è il reciproco di ‘queer’? Cos’è ‘non queer’? È normale? È usuale? È dominante?
Uno dei saggi critici raccolti nel libro affronta l’ «11 settembre al cinema» (nota 3) e, fra l’altro, il film «World Trade Center» di Oliver Stone:
 
L’unica storia che WTC riesce a raccontare è quella di due poliziotti della Port Autority rimasti intrappolati sotto le macerie e poi salvati da ardimentosi marines e vigili del fuoco e che si tengono in vita raccontandosi storie per tutto un giorno e una notte infernali […] Solo verso la fine, durante una breve sequenza che sembra spuntare dal nulla (vediamo David Karnes, un veterano dei marines dalla mascella squadrata e residente in Connecticut che, dopo aver visto le notizie, si infila l’uniforme e si fionda a Ground Zero, dove finirà per trovare i due poliziotti intrappolati), lo sguardo si apre sul mondo esterno. «Serviranno uomini in gamba per far fronte a tutto questo» dice l’ex marine, dritto come un fuso nella sua uniforme perfettamente stirata mentre contempla le macerie.
 
E Mendelsohn continua:
 
Una didascalia prima dei titoli di coda spiega che, dopo aver fortunosamente salvato i due poliziotti della Port Autority, quel marine ha combattuto in Iraq per due turni; l’evidente sottinteso è che si è mostrato all’altezza della sfida che aveva preconizzato, che è stato uno degli «uomini in gamba» in grado di «far fronte a tutto questo»-
 
Ebbene, cosa coglie la sensibilità di Mendelsohn in tutto questo? Ce lo dice come meglio non si può a pagina 250 dello stesso saggio, dove evoca Eschilo e i suoi Persiani. In particolare evoca il fatto che Eschilo, «proprio nel momento del loro più grande trionfo [la celebrazione della vittoria greca sui persiani a Maratona] scelse di identificarsi non con i greci inebriati dalla vittoria, ma con i persiani in lutto.» E conclude: «Beati ateniesi.»
Allora, a rischio di semplificare un po’: una scrittura rivela necessariamente qualcosa della mano che la compone. Nella piccola scrittura, nella piccola letteratura. Come nella piccola critica, questa mano pesa come un macigno. In essa si legge qualcosa del fantasma individuale che è necessariamente sessuato. Da un certo punto di vista che si tratti del machismo, della mascella quadrata e della divisa perfettamente stirata dei marines oppure di una posizione queer militante,
cambia poco. Questione, direi, in fondo di gusti. C’è poi, e Mendelsohn lo sa benissimo e ce lo fa toccare con mano, la grande letteratura e la grande critica che, come i classici, fa del fantasma dell’autore, della mano dietro al testo, qualcosa che è capace di illuminare la complessità. Sofocle è Antigone ed è Creonte, ovvero mette in scena non un torto e una ragione, bensì due ragioni e ci invita a tener conto dell’irrisolvibilità della questione. Eschilo, l’abbiamo detto, è un greco che festeggia la vittoria greca identificandosi al nemico sconfitto; Euripide fa parlare Medea, un personaggio femminile che si oppone con tutte le sue forze all’ordine proprio della cultura che, al suo apice, aveva espresso autori come, appunto, Euripide. Autori classici che, come è proprio dei romanzi, sono capaci di produrre dettagli che potrebbero essere una bugia o una verità. Una bugia che dice la verità (nota 4), oppure, come nota Mendelsohn:
 
Se i classici sono ‘grandi’ non è perché incarnino una qualche semplicistica nobiltà di pensiero e bellezza di forma, ma perché, proprio grazie alla loro oscura complessità, continuano a parlarci in nuovi modi, spingendoci a rileggerli nel momento stesso in cui mettiamo in discussione il nostro modo di interpretarli. (nota 5)

NOTE
1 Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Garzanti 2022.
2 D. Mendelsohn, Estasi e terrore, Einaudi 2024, p. 358.
3 Ivi, p. 239.
4 Cfr. ivi, p. 323.
5 Ivi, p. 126.

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