William Faulkner, Una favola, La nave di Teseo, Milano 2024.
Una favola, questo è il titolo del libro di Faulkner appena pubblicato in traduzione italiana. La favola consiste in questo: il Milite Ignoto si incarna, si fa uomo, si fa soldato, senza gradi e senza stellette, perfino senza divisa o, meglio, con una divisa unica che rende uniformi, uguali, i soldati di tutti gli eserciti. Succede nel 1918, durante la Grande Guerra. Fattosi uomo, il Milite Ignoto, quell’uno che è tutti, cessa di combattere, semplicemente, con risultati spiazzanti:
“Puh,” disse il vecchio; suonò quasi come uno sputo. “Cosa importa se Lui riconduce o no mio figlio? Mio figlio, o il tuo, o quello di un altro? Il figlio mio? Anche tutto il milione che abbiamo perduto da quel giorno di quattro anni fa, il miliardo da quel giorno di mille ottocento ottantacinque anni fa. Quelli che Lui restituirà alla vita sono quelli che sarebbero morti dopo le otto di stamani. Mio figlio? Il figlio mio?” – e poi (la staffetta) di nuovo giù dall’autocarro (la colonna si era fermata).
V. Andreoli, Il Gesù di tutti, TS, Milano 2023, pp. 110 e 111.
La lettura del libro di Faulkner mi ha fatto pensare ad un’altra recente lettura: Il Gesù di tutti, di Vittorino Andreoli. È un libro strano, apparentemente semplice. La sua semplicità apparente risiede nel fatto che fa appello a una fede, a una tradizione, a un’iconografia che è quella condivisa dalla maggior parte degli italiani. Il Gesù che Andreoli rilegge è solo apparentemente quello dei Vangeli: dei tre sinottici e di quello di Giovanni. In realtà quello che è al centro della narrazione è il Gesù dei bambini, il Gesù che la tradizione popolare ha costruito come figura di riferimento del pensiero cristiano. Poco tempo fa qualcuno mi parlava della propria fede, della saldezza della propria fede. L’immagine era quella della chiesa del paesino dove era nata la persona in questione, e lei, bambina, nella navata seduta a fianco di un’amica, di una cugina o di una sorella e poi, nel silenzio o, e il che è lo stesso, nella ripetitività rassicurante dell’andamento della messa, un colpo di tosse dalle ultime file, che riconosceva come quello del padre. Un’immagine di pace, di ordine, di un funzionamento garantito, di un modo di fare famiglia e di fare comunità non conflittuale, privo di dissidio interno.
Questo Gesù ordinato, questo Gesù infantile e accattivante, cosa avrebbe fatto in guerra? Anzi, cosa fa in guerra questo Gesù della tradizione? In guerra, nella stessa chiesa del colpo di tosse, quello stesso padre vi sarebbe stato in divisa, in attesa di essere inviato al fronte. Lui come altri come lui: italiani, israeliani, palestinesi, russi o ucraini. Tutti benedetti in lingue diverse dallo stesso Gesù che li accompagna sui campi di battaglia fino troneggiare, rassicurante e protettivo, sulla tomba del Milite Ignoto, sull’Altare della Patria guardato a vista, onorato da due soldati in armi.
Non è questo il Gesù di Faulkner. La sua venuta, come soldato, come ognuno dei soldati fino a quel momento scampati al massacro, è una venuta angosciante, che scardina l’ordine sociale. Perché è chiaro questo: l’ordine della guerra è lo stesso ordine della pace. Non c’è modo di porre fine alla guerra senza scardinare alla radice l’ordine della convivenza civile, per come è.
In altre parole, il pacifismo si muove verso l’ideale. Fa appello alla speranza ingenua e forte di una pace che non sia episodica, che non sia passata attraverso il crogiolo di una guerra. Il pacifismo aspira a eternizzare una condizione che noi conosciamo solo come effetto di contingenza. Ombra e luce, bene e male organizzati in una coppia dialettica per la quale ognuno si sostiene dalla presenza dell’altro.
La favola di Faulkner non è però pacifista. I soldati sono i primi ad esser sconcertati, spaesati dalla cessazione della guerra che cessa non perché essi abbiano smesso di belligerare, bensì perché il nemico, ogni nemico, ha smesso di belligerare. I tedeschi non sparano perché i francesi hanno smesso di sparare e gli inglesi cessano di sparare perché i tedeschi hanno smesso di sparare loro addosso. Tutti sono in attesa di un ordine che non arriva, che manca.
Naturalmente, se i Vangeli sono lì da duemila anni è ben per qualcosa e, puntualmente, il Gesù di Matteo lo dice con chiarezza:
Non pensate che io sia venuto a portare la pace nel mondo: io son venuto a portare non la pace, ma la discordia. Infatti sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. E ognuno avrà nemici anche nella propria famiglia. Perché chi ama suo padre e sua madre più di quanto ama me; chi ama suo figlio o sua figlia più di me, non è degno di me.
Matteo, 10, 33 – 37.
L’ordine che cade è insomma l’ordine che è insieme l’ordine della pace e l’ordine della guerra. Non si tratta dell’aspirazione all’eternalizzazione della pace della contingenza, bensì di una trasformazione radicale dell’ordine dal quale si sostengono sia la pace che la guerra.
Ci ho messo un po’ a capire per quale ragione fossi infastidito dall’immagine di Zelensky in felpa grigioverde. In fondo penso che si tratti della sua resa totale alla logica del due: o me (noi) o l’altro; di un’identificazione che si vuole totale e che, a partire dall’immagine, si dichiara come tale.
Direi che è qui l’importanza di cogliere la differenza tra l’esistenza di (un) Dio e l’esistenza di un posto «Dio» nel discorso degli uomini. Faulkner ci dice qualcosa di quelli che sarebbero gli effetti sociali del riconoscimento di un posto che si caratterizza per essere un posto vuoto. Un posto altro da cui discende una pratica che riconosce l’altro altrove che nella pura specularità.
Bisogna, diciamo così, accontentarsi: i restituiti alla vita non sono tutti, non sono i miliardi degli infinitamente morti, bensì i “pochi” che sarebbero morti dopo, dopo il suo farsi uomo.